L’arte del public speaking: ne parliamo con Vittorio Attene

Vorremmo tutti vivere in un’isola felice dove la nostra sola volontà detta il passo degli avvenimenti. Dove l’intesa col prossimo è immediata ed efficace, dove i nostri interlocutori si interessano ai nostri progetti con la stessa passione che mettiamo noi nel realizzarli. Sarebbe bellissimo, ma ovviamente non è così: le interazioni sociali sono composte da comunicazione al 99%, e quelle lavorative non fanno eccezione, anzi!

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15 September, 2023

Si potrebbe pensare che la capacità di convincere il prossimo, di esporre un argomento complesso, di presentare un progetto di fronte a una platea, sia un complesso di skills che passano un po’ in secondo piano rispetto alle competenze tecniche, nel momento in cui un recruiter passa al vaglio i candidati. A crederlo, però, peccheremmo di ingenuità: secondo uno studio condotto negli Stati Uniti nel 2014, una buona comunicazione orale è un requisito fondamentale per l’85% dei 400 datori di lavoro intervistati. I manager stessi non fanno eccezione: secondo Harvey Coleman, nel suo libro “Empowering Yourself”, la carriera di un manager è determinata al 10% dalla performance, al 30% dall’immagine e al 60% dalla cosiddetta “Esposizione”, ossia la capacità di far sapere a tutti quello che si ha fatto, si sta facendo e si farà.  

Ora, Coleman è senza dubbio tanto realista da apparire quasi cinico, e con estrema probabilità quel 30% di componente immagine che travolge il 10% di performance fa un po’ rabbrividire quelli di noi che sono più affezionati alla sostanza… ma siamo sicuri di poter derubricare il 60% della comunicazione di sé, l’esposizione, a semplice sfogo di un uomo d’affari disilluso? Basta farę un ragionamento di buon senso, che vada al di là della semplice presentazione di sé. Moltissimi lavori prevedono di vendere dei prodotti, e per vendere occorre saper comunicare con sicurezza e decisione. In moltissime altre posizioni, specie apicali, è necessario saper esporre le proprie idee, i propri lavori sia individuali che in team, davanti a platee più o meno numerose, con un investimento emotivo non indifferente. Via via che una carriera passa dal mondo di noi mortali alle vette dell’olimpo, poi, si moltiplicano le conferenze, le lezioni, i riconoscimenti e i discorsi pubblici, e allora la capacità di salire sul palco e parlare di fronte a centinaia di sconosciuti diventa essenziale. 

E si può ancora pensare, senza mai mollare la nostra rassicurante ingenuità, che una volta arrivato a ruoli di rappresentanza, una persona non abbia più problemi di imbarazzo quando si trova ad affrontare una platea. Manco a dirlo, è un’idea sbagliata: secondo uno studio condotto da Prezi, un’azienda statunitense che offre tools e consulenze per la comunicazione il 70% dei manager ritiene che la capacità di presentare sia critica per la carriera, ma il 12% delegherebbe il compito anche se questo fosse nocivo per la propria carriera, e il 9% si darebbe addirittura malato o malata, pur di non salire sul palco. Il 75% di chi riesce, comunque, magari a fatica, a salire sul palco e parlare, pensa però di sé stesso di essere inefficace e noioso. Vorrebbe essere, insomma, più abile. 

In due parole, quello di cui hanno bisogno è qualche lezione di Public Speaking. Un po’ di dimestichezza con l’arte di affrontare platee, salire su un palco e controllare le proprie emozioni, al contempo esprimendosi in una comunicazione chiara, accattivante e coinvolgente. Qualcosa di molto complesso, certo, ma il Public Speaking è una materia davvero interessante, che fonde in sé elementi di psicologia e sociologia, tecnica di comunicazione, relazioni interpersonali e quella evanescente arte tanto concreta quanto in apparenza basata esclusivamente sull’estro che chiamiamo recitazione. Per questo i docenti di Public Speaking sono quasi tutti attori, per questo abbiamo chiesto a un attore di spiegarci in cosa consista il Public Speaking come materia, chi sia il suo allievo medio e come i suoi insegnamenti impattino, poi, sulla vita e sulla carriera delle persone che li ricevono. 

Vittorio Attene è un attore professionista, direttore e anima della Rec.Itando Acting Studio di Padova, che eroga, fra gli altri insegnamenti, anche corsi di Public Speaking a professionisti e manager. 

Vittorio, ci fai un sunto della tua carriera fino a qui?

Beh, io nasco come attore nel 1995: mi sono diplomato all’Accademia Silvio D’Amico di Roma, dopodiché ho fatto l’attore di giro per circa dodici anni. Infine mi sono trasferito a Padova dove ho cominciato l’attività da regista e formatore, soprattutto nella recitazione e nella comunicazione. Ho lavorato nel cinema, nella televisione e soprattutto a teatro.

Come hai capito che insegnare public speaking poteva essere un buon risvolto per la tua professione?

L’avvicinamento al public speaking è avvenuto abbastanza casualmente. Nel senso che andando a trovare nuovi percorsi di docenza ho visto che gli strumenti che vengono utilizzati nella formazione degli attori potevano essere applicato anche alla formazione di quelle persone che hanno necessità per lavoro di dover comunicare. Parliamo di esercizi sulla voce sul paraverbale o sul non verbale per dirla in gergo,  elementi didattici molto vicini allo studio che fanno gli attori. Diciamo che è stato un percorso casuale, che però nel tempo si è consolidato: ormai son quasi vent’anni che erogo questi insegnamenti.

Quanti studenti ho avuto finora nei tuoi corsi di public speaking?

È difficile dare una cifra precisa, sono vent’anni di attività, direi centinaia!

Puoi descrivere in sintesi quello che è il tuo studente tipo?

Allora, lavorando soprattutto nel campo dell’associazionismo molto spesso sono persone che hanno necessità di di costruire una una struttura per quanto riguarda i loro interventi davanti a un pubblico. Parliamo tanto di grandi platee quanto semplicemente di riunioni, per cui un vero e proprio studente tipo non esiste. Si può andare dall’avvocato fino al panettiere (giuro che mi è capitato): una vastissima gamma di persone che hanno necessità di migliorare la loro comunicazione. Poi ovviamente ci sono le attività all’interno delle aziende che sono molto più specifiche, ma in generale posso dire che il mondo delle persone che si avvicinano la comunicazione è davvero variegato.

Addirittura un panettiere? Perché un panettiere si rivolge a un corso di public speaking?

Perché ha bisogno di lavorare sul suo rapporto con i clienti, capire come essere più gentile, come gestire meglio dinamiche particolari, per tante ragioni.

Quindi sostanzialmente sviluppano le loro capacità commerciali.

In un certo senso sì, anche se poi alla fine lavoro molto poco su questo. Entrando nel merito del tipo di lavoro che faccio, molto spesso è dedicato alla persona. Molti pensano di poter approfondire argomenti come il non verbale o il paraverbale semplicemente leggendo qualche articolo in rete, ma in realtà scoprono che il lavoro vero è su se stessi. E qui mi ricollego al lavoro dell’attore e addirittura a Stanislavskij: il lavoro dell’attore su se stesso.

Ma quali sono invece i problemi che tu riscontri nei negli studenti che si approcciano al public speaking?

Prima di tutto una bassissima autostima. Molto spesso hanno paura di rivolgersi al pubblico, di parlare davanti a esso, hanno paura del giudizio degli altri e altrettante volte scoprono all’interno del percorso che sono proprio loro i primi e più severi giudici di se stessi. Si scontrano con la realtà di una bassissima autostima: non si piacciono dal punto di vista fisico, non accettano dei propri difetti. Hanno bisogno proprio di fare un grande lavoro di accettazione. Questa è la cosa che ho scoperto essere il vero obiettivo del mio lavoro: sostanzialmente è sbloccare le persone, un lavoro incentrato sull’individuo in sé.

E invece dal loro punto di vista? Quali sono le aspettative che ripongono sui tuoi corsi?

Le aspettative sono quelle ovviamente di trovare un sistema per strutturare il loro modo di costruire un discorso o di approcciarsi alle altre persone. Molti, però, non sanno esattamente che cosa vogliano se non, banalmente, superare la timidezza. Sono molto generici: finché non cominciano il percorso non sanno neanche loro esattamente quali siano le domande che si devono fare per migliorare. Sanno che hanno un problema, e che questo problema è la paura.

Tipo l’ansia da prestazione, salire sul palco, cose del genere?

Esatto.

E i risultati pratici che alla fine ottengono si discostano dalle loro aspettative o sono in linea con esse?

Molto spesso no: vanno oltre! Il tipo di percorso che faccio è poco teorico, nel senso che diamo delle informazioni molto basilari concentrandoci poi su dei percorsi che possono essere anche annuali, per cui parliamo di 60 o 70 incontri molto impegnativi. Praticamente sono tutti esercizi fatti con la videocamera sul palco, simulazioni di discorsi in platea oppure faccia a faccia. Si basa tutto sul gioco, veri e propri giochi che si trasformano in esercizi, e i partecipanti spesso scoprono che in questo modo si distraggono da loro stessi, scoprendo molte più cose di quello che si aspettavano. Lo fanno in maniera, diciamo, ludica, il che dal loro punto di vista è molto inaspettato. Eppure è proprio distrarsi da se stessi che ci porta a superare la paura. Ogni passo avanti in questo senso va di volta consolidato, perché è molto facile tornare indietro. In generale il percorso è molto pratico, fondato sull’esigenza di trasformare le nuove consapevolezze che gli allievi raggiungono in abitudini vere e proprie.

Quindi le abilità di public speaking, al di là del corso, devono poi essere tenute in allenamento.  Come si può fare?

Occorre trovare occasioni per mettersi in gioco: non tirarsi indietro. Magari abbozzare un discorso durante una cena con gli amici. A lavoro, se ti chiedono di affrontare un pubblico, accettare senza troppi pensieri. Io lo dico sempre: non abbiate paura di sbagliare, perché nello sbaglio imparate. È una banalità, però è così perché dall’errore poi si ricavano gli strumenti per analizzare, si capisce come migliorare successivamente. È sempre la pratica che aiuta lo studente a migliorare, perché lavorare su se stessi vuol dire dover destrutturare quel che si è, costruire un nuovo asse in cui andare a valorizzare quelli che sono i punti di forza: trasformare quelli che sono i difetti in occasioni o peculiarità. Perché molto spesso tendiamo a voler eliminare un difetto non sapendo che quel difetto, magari, può essere talmente caratterizzante da renderci comunicatori differenti dagli altri, unici.

Perché, secondo te, il public speaking è importante per chi vuole fare business e avere una carriera florida oggigiorno?

È chiaro che conoscere quelle che sono le dinamiche della comunicazione è fondamentale. Un problema molto presente in Italia è che la comunicazione è spesso affidata al caso o al proprio istinto. Molte persone non sono abituate a lavorare sul proprio intervento come farebbe un attore, cioè dandosi una struttura. Uno degli aspetti più importanti su cui mi trovo a lavorare è trasmettere allo studente questa attitudine: preparare e strutturare in maniera corretta la comunicazione, e poi provarla e verificarla continuamente. Nelle aziende molto spesso ci si affida semplicemente alla struttura del discorso, alle cose da dire, e non a come dicono. Perché? Perché nonostante si sappia che il non verbale il paraverbale incidono sull’interlocutore in modo molto più forte di quanto non faccia il verbale – ossia che il pubblico si ricorda molto di più come hai detto le cose che le cose che hai detto -, attualmente il pensiero più diffuso è che la sostanza delle parole sia molto più importante dello stile dell’esposizione. Per cui è fondamentale che in un’azienda ci siano persone che badano tantissimo al modo in cui presentano le cose che hanno da dire. Molti, commercialisti o figure simili che magari devo presentare dati numerici, partono già dal presupposto che quel che hanno da dire sia di per sé noioso. Se ne sono convinti loro per primi, il pubblico lo recepirà esattamente come loro lo sentono: noioso. Quindi un’altra fondamentale esigenza è quella di fornire a chi prepara il discorso strumenti per rendere più dinamico, divertente, inusuale quello che hanno da dire.

Tu pensi che l’intelligenza artificiale ci libererà dall’esigenza di saper parlare in pubblico?

Per quanto riguarda i lavori di concetto il rischio di essere sostituiti da una IA esiste, certo… Ma io sono fiducioso per quanto riguarda il fatto che in realtà gli esseri umani cercano sempre un contatto umano, in un modo o nell’altro lo trovano rassicurante.

Vittorio Attene

Attore e regista, nel 2004 ha completato il corso di perfezionamento in regia presso il Teatro Stabile del Veneto, “Dalla tragedia greca al teatro del ‘900” dove ha studiato con Maurizio Scaparro, Marco Sciaccaluga, Luca De Fusco, Piero Maccarinelli e Beppe Navello. 
Ha seguito seminari con attori di fama internazionale come Nicholaj Karpov (Biomeccanica), dalla Scuola di Mosca, Alan Woodhouse (Educazione della voce), dalla Guilldhall School of London, Wendy Alnutt (Improvvisazione), dalla Guilldhall School of London, Marisa Fabbri (Struttura del testo), dall’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio D’Amico, Tobias Verti (Movimento del corpo) al festival teatrale di San Miniato, Ken Rea (Educazione della voce), dalla Guilldhall School of London.