A certificarlo è un’indagine Ipsos per Humana People2People, che si affianca a un altro studio, sempre Ipsos per Altroconsumo, secondo cui sei italiani su dieci ritengono che un’azienda priva di un serio impegno ambientale e sociale sia destinata a non avere futuro. Eppure, nel mare magnum della moda, distinguere il reale impegno dalla narrazione strategica è tutt’altro che immediato. A differenza di altri settori – come quello alimentare, dove le linee guida per un consumo consapevole risultano relativamente intuitive (sappiamo che un cibo a chilometro zero è preferibile a uno industriale e che le proteine vegetali hanno un’impronta ecologica inferiore a quelle animali) – l’industria tessile si muove su una filiera lunga, opaca, frammentata, nella quale le variabili sono molteplici e spesso indecifrabili a uno sguardo inesperto.
Il mantra delle campagne di comunicazione
I grandi brand lo sanno bene e, negli ultimi anni, la sostenibilità è diventata un mantra delle loro campagne di comunicazione. Tuttavia, non di rado, si tratta di una narrazione selettiva: grandi investimenti per capsule collection realizzate con materiali riciclati, lanciate con toni enfatici e immagini patinate, mentre il resto della produzione resta ancorato ai modelli di sempre. Non è in discussione la validità di queste collezioni – talvolta effettivamente realizzate secondo criteri virtuosi – ma la domanda è un’altra: basta questo? È sufficiente un frammento di sostenibilità per riscattare un intero sistema produttivo? O è solo una foglia di fico dietro cui si cela il solito meccanismo di sovrapproduzione e sfruttamento? Senza un’autentica trasformazione dell’intera filiera, la sostenibilità rischia di rimanere un’etichetta rassicurante, più utile alla costruzione dell’immagine aziendale che a un reale cambiamento del settore. E mentre il consumatore si muove tra claim ecologici e certificazioni più o meno trasparenti, resta il vero interrogativo: quale moda stiamo davvero sostenendo con i nostri acquisti?
Paura del greenwashing: un italiano su tre non crede alle dichiarazioni green dei brand
La moda si tinge di verde, almeno nelle intenzioni, ma dietro le promesse dei brand e le strategie di marketing si cela un dato inequivocabile: il 54% degli italiani considera il greenwashing una pratica diffusa. Il fenomeno è ormai sotto i riflettori, anche a seguito delle recenti sanzioni dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (Agcm) a diverse aziende colpevoli di millantare credenziali ambientali senza un reale impegno strutturale. La percezione pubblica si fa più attenta, ma l’accesso a una comprensione autentica della moda sostenibile resta ancora un percorso accidentato. Due italiani su tre non conoscono il concetto di moda circolare, eppure il 74% si dichiara interessato a un settore più etico. Un paradosso che trova conferma nei numeri: a fronte di un consumo annuo di 23 kg di capi per abitante, la raccolta differenziata dei prodotti tessili si ferma a soli 2,7 kg pro capite. Un dato dissonante, soprattutto ora che l’Unione Europea ha reso obbligatoria la raccolta differenziata dei rifiuti tessili in tutti gli Stati membri. Il problema, dunque, non è solo di sensibilità, ma di infrastrutture e trasparenza lungo l’intera filiera.

Gli italiani ha boicottato le aziende accusate di greenwashing
I dati Ipsos, presentati in un webinar organizzato da Erion Textiles, consorzio del Sistema Erion dedicato al settore tessile, dipingono un panorama in cui il sospetto verso le strategie dei marchi cresce. Un italiano su tre ritiene che le aziende realmente virtuose nel nostro Paese siano meno del 30%, mentre il 22% è convinto che molte iniziative sostenibili siano concepite più per generare profitto che per avviare un cambiamento strutturale. Il 20% crede, inoltre, che l’attenzione all’ambiente sia spesso un espediente per attrarre un pubblico giovane e sensibile al tema. Questa diffidenza si traduce anche in azioni concrete: il 15% degli italiani ha boicottato un’azienda sospettata di greenwashing, percentuale che sale al 33% tra i giovani dai 18 ai 24 anni, segno di una consapevolezza emergente nelle nuove generazioni. Se l’interesse verso una moda più sostenibile esiste, è soprattutto l’universo femminile a trainare il cambiamento: l’81% di chi si dichiara attento al tema è donna, con una propensione marcata verso il second hand, l’attenzione alle pratiche produttive e la richiesta di maggiore trasparenza nei processi. Sono loro a imprimere un’accelerazione verso un sistema più circolare, capace di superare l’impasse di una filiera che ancora fatica a trasformare le promesse in impegni concreti. Ma tra capsule collection in materiali riciclati e dichiarazioni di intenti, la domanda resta aperta: siamo di fronte a una vera rivoluzione del settore o solo all’ennesima narrazione costruita ad arte?
Il passaporto digitale: uno strumento contro greenwashing
La moda è sotto la lente d’ingrandimento, ma distinguere tra impegno autentico e strategie di marketing è un’impresa tutt’altro che semplice. Come possiamo, noi consumatori, capire chi davvero fa la differenza e chi, invece, sfrutta la sostenibilità come uno slogan per vendere di più? È un interrogativo cruciale in un settore che, sempre più spesso, si avvale di narrazioni patinate per mascherare pratiche produttive poco trasparenti. In questo scenario, arriva dall’Unione Europea una novità che potrebbe trasformare radicalmente il rapporto tra consumatori e brand: il Digital Product Passport, un’etichetta digitale che accompagnerà ogni capo d’abbigliamento, calzatura o accessorio. Attraverso un QR code, sarà possibile accedere a informazioni dettagliate sull’intero ciclo di vita del prodotto, garantendo dati verificati e completi.
Questa innovazione mira a colmare il divario tra ciò che le aziende dichiarano e ciò che effettivamente fanno. Grazie al passaporto digitale, sarà possibile rispondere a domande fondamentali: chi ha prodotto questo oggetto? Da dove provengono i materiali e dove sono stati lavorati? Sono davvero sostenibili? Il prodotto è riciclabile? Quale impatto ambientale ha generato? Si tratta di un passo avanti significativo per garantire quella trasparenza tanto invocata, ma raramente messa in pratica. Se applicato correttamente, il Digital Product Passport non solo offrirà strumenti concreti ai consumatori per fare scelte consapevoli, ma costringerà le aziende a un confronto diretto con le proprie responsabilità, riducendo lo spazio per ambiguità e operazioni di greenwashing. In un mondo dove i consumatori diventano sempre più esigenti e informati, questa rivoluzione digitale potrebbe segnare il punto di svolta per una moda finalmente all’altezza delle sue promesse.

Rifiuti tessili in Italia: è l’inizio di una nuova responsabilità collettiva
La raccolta differenziata dei rifiuti tessili in Italia sta crescendo, ma i numeri evidenziano una sfida ancora lontana dall’essere vinta. Secondo il Rapporto Rifiuti Urbani 2023 di ISPRA, i tessili rappresentano una quota significativa del problema ambientale legato all’industria della moda. Nel 2023 sono state raccolte 171,6 mila tonnellate di rifiuti tessili, segnando un aumento del 7% rispetto all’anno precedente. Questo progresso porta la media nazionale a 2,9 kg per abitante, un dato incoraggiante ma ancora distante dall’obiettivo di una gestione pienamente sostenibile del ciclo di vita dei capi d’abbigliamento.
L’Italia, che ha anticipato al 2022 l’obbligo europeo della raccolta differenziata tessile entrato in vigore quest’anno, si trova ora davanti a una svolta cruciale: l’avvio del regime EPR (Responsabilità Estesa del Produttore). Questo modello, destinato a rivoluzionare l’intero settore, spingerà le aziende a progettare prodotti più riciclabili e a implementare pratiche sostenibili lungo l’intera filiera. Sarà una transizione complessa, ma necessaria, che vedrà produttori, consorzi e consumatori uniti in un’inedita alleanza di responsabilità ambientale.
I comuni italiani e la raccolta differenziata dei tessili
La raccolta differenziata dei rifiuti tessili in Italia sta crescendo, ma il quadro delineato dall’ultimo Rapporto ISPRA è complesso e sfaccettato. Dal 2019 al 2023, il volume raccolto è aumentato del 9%, passando da 157,7 mila tonnellate a 171,6 mila tonnellate. A trainare questo progresso sono state principalmente le regioni del Nord, che hanno contribuito con 83.165 tonnellate, seguite dal Sud con 52.970 tonnellate e dal Centro con 35.440 tonnellate.
A livello regionale, la Lombardia si conferma leader assoluta con 29.146 tonnellate, seguita dalla Campania (15.451 tonnellate) e dall’Emilia-Romagna (15.277 tonnellate). Tra le città spicca Milano, simbolo della moda internazionale, che con 4.107 tonnellate raccolte, pari a quasi 3 kg per abitante, dimostra come una gestione responsabile dei rifiuti tessili possa coesistere con l’immagine di capitale del fashion.
Nel complesso, oltre l’80% dei comuni italiani ha avviato la raccolta differenziata dei tessili, un dato incoraggiante che testimonia un impegno diffuso sul territorio. Tuttavia, i numeri rivelano anche un’urgente necessità di ampliare queste pratiche e promuovere una maggiore consapevolezza tra consumatori e aziende. Le disparità geografiche e i ritmi di crescita non uniformi sottolineano come ci sia ancora molto da fare per rendere il sistema davvero efficace.

Cosa ci riserva il futuro? Tutte le nuove normative in vigore
Il settore tessile europeo si prepara a una trasformazione epocale, con normative destinate a ridisegnare le sue fondamenta. Tra i provvedimenti più attesi figura il regolamento europeo Ecodesign, che includerà il divieto di distruzione dell’invenduto, e l’introduzione del regime EPR (Responsabilità Estesa del Produttore). Questi strumenti normativi, interconnessi tra loro, puntano a coinvolgere tanto i produttori quanto i consumatori. Il 2025 segnerà pertanto l’inizio di una nuova era per la gestione dei rifiuti tessili, in cui il decreto attuativo per il regime EPR, atteso nella seconda metà dell’anno, potrebbe rappresentare un punto di svolta. Un sistema che potrebbe triplicare i volumi dei rifiuti tessili gestiti nei prossimi sei anni secondo gli esperti. Una prospettiva ambiziosa che richiede uno sforzo collettivo: imprese, consorzi e consumatori saranno chiamati a collaborare per trasformare uno dei settori più inquinanti in un esempio di circolarità.
Il successo di questa transizione non si misurerà solo nei numeri, ma nella capacità di cogliere l’opportunità di un cambiamento culturale. Strumenti come l’EPR non si limitano a ridurre l’impatto ambientale della filiera, ma richiedono un ripensamento dei processi produttivi, dalla progettazione dei capi alla loro gestione post-consumo.
Poche semplici mosse per sostenere la moda etica
Scaricare il report di sostenibilità
In attesa che la rivoluzione del Digital Product Passport entri a pieno regime, possiamo già fare molto per capire quanto sia credibile l’impegno sostenibile di un brand. Un primo passo è visitare il sito ufficiale dell’azienda, dove spesso è possibile scaricare il report di sostenibilità: qui possiamo scoprire se il marchio effettua verifiche regolari sulla filiera, se condivide un codice etico o se ha avviato progetti per incentivare fornitori e subfornitori a lavorare in modo più responsabile. La trasparenza è un segnale importante: più un brand rende visibili i processi produttivi, più aumenta la fiducia del consumatore, dato che è nella filiera che si concentrano i maggiori impatti ambientali e sociali.
Leggere l’etichetta
Dall’etichetta di un capo possiamo ottenere ulteriori informazioni utili. Qual è la materia prima? Il cotone è certificato biologico? La viscosa è garantita da certificazioni FSC per una gestione responsabile delle foreste? Il poliestere è riciclato? È essenziale ricordare che non esiste un materiale “migliore” in assoluto: le fibre sintetiche sono ideali per l’abbigliamento tecnico, mentre quelle naturali sono preferibili per capi quotidiani. Anche i simboli di manutenzione sull’etichetta, spesso ignorati, sono fondamentali per prolungare la vita del prodotto, consentendo che possa essere donato o rivenduto ancora in ottime condizioni.
Controllare il prezzo
Un ulteriore indizio proviene dal prezzo. Un costo troppo basso è spesso un segnale di compromessi: un prodotto economico difficilmente garantirà la qualità necessaria per durare nel tempo, rispettare i diritti dei lavoratori o limitare l’impatto ambientale delle fabbriche. Ogni euro risparmiato da noi è un costo trasferito su persone e ecosistemi lungo la filiera produttiva.
Leggere le recensioni online
Se queste informazioni non sono immediatamente disponibili, possiamo fare qualche ricerca: piattaforme come Good on You, blog di settore e recensioni online sono risorse preziose. Possiamo anche rivolgerci direttamente alle aziende, ponendo domande sui social o agli addetti alla vendita. Votare con il portafoglio non è solo un modo di dire: le scelte dei consumatori sono il motore principale del cambiamento. Ogni acquisto è un messaggio che può spingere i brand verso pratiche più etiche, trasformando noi stessi da semplici consumatori in attori consapevoli. In questo modo, contribuiamo a proteggere gli ecosistemi e a migliorare la vita delle persone, un capo alla volta.