Le organizzazioni, sempre più permeate dall’intelligenza artificiale, si trovano ad affrontare complessità che richiedono più di una comprensione tecnica. Le humanities emergono come il contrappeso essenziale alle imposizioni degli algoritmi, offrendo strumenti per interpretare i dati senza esserne schiavi. È qui che si fa strada la necessità di formare professionisti capaci di integrare competenze umanistiche e digitali, sviluppando etica, autonomia decisionale e consapevolezza critica.
L’IA come strumento al servizio dell’uomo
Non si tratta solo di un ideale, ma di una necessità concreta: l’AI non può essere un fine in sé, ma uno strumento al servizio dell’uomo. Per farlo, occorre una prospettiva in grado di umanizzare le tecnologie, trasformandole in un motore di progresso sociale. Questa visione non è un limite, ma un arricchimento: le competenze umanistiche non si oppongono alla tecnologia, bensì la completano, guidandola verso un impatto più consapevole e responsabile. Se il mondo del lavoro futuro sarà intrinsecamente permeato dall’intelligenza artificiale, il rischio maggiore non è tecnologico, ma umano: lasciare che le decisioni si riducano a predizioni meccaniche, perdendo di vista valori e complessità. È per questo che, oggi più che mai, le scienze umane sono il baluardo necessario per garantire che sia l’umanità, e non gli algoritmi, a guidare il futuro.
Lavoratori italiani e IA: tra fiducia, timori e nuove competenze
Dell’impatto dell’intelligenza artificiale, soprattutto quella generativa, sul mondo del lavoro si è discusso molto nell’ultimo anno, ma la questione rimane centrale. Un recente studio del Boston Consulting Group, basato su un sondaggio condotto su 150mila lavoratori tra i 20 e i 40 anni in 188 Paesi, tra cui l’Italia, offre una fotografia aggiornata delle percezioni e delle dinamiche legate a questa tecnologia trasformativa. Secondo il rapporto, la maggior parte dei lavoratori italiani non teme di essere sostituita dall’AI: il 26% ritiene che non avrà impatti sul proprio lavoro, mentre solo il 7% pensa che la propria professione diventerà obsoleta. A livello globale, le percentuali sono simili (25% e 5% rispettivamente). Tuttavia, il 49% degli intervistati prevede che alcuni aspetti delle proprie attività cambieranno, richiedendo lo sviluppo di nuove competenze. Tale consapevolezza è particolarmente forte nelle economie emergenti rispetto ai mercati più maturi.
Come l’IA ridisegna la percezione del proprio lavoro a seconda del ruolo
L’impatto dell’intelligenza artificiale non è percepito in modo uniforme. Secondo studi recenti, i lavoratori nei settori finanziari, creativi e di customer service mostrano una maggiore apertura verso l’integrazione dell’IA, riconoscendone il potenziale nell’automazione di compiti ripetitivi e nel miglioramento delle performance. In questi ambiti, il cambiamento è accolto con più fiducia, mentre chi opera in settori manuali o sociali tende a considerare l’IA meno rilevante per il proprio ruolo.
Questa differenza non è casuale: l’adozione tecnologica è spesso legata alla natura del lavoro stesso e alle competenze richieste. I giovani sotto i 30 anni sono in prima linea nell’utilizzo dell’IA, con quasi metà di loro che ne fa uso regolare, ma l’adozione resta limitata in altri contesti. Le imprese devono ora affrontare una sfida cruciale: offrire non solo strumenti innovativi, ma anche percorsi di formazione che rendano l’IA accessibile e utile a tutti i settori, affinché questa tecnologia possa trasformarsi in un motore di crescita collettiva.

Quasi la metà degli italiani non ha ancora sperimentato l’AI
L’Italia si posiziona tra i Paesi europei con una bassa adozione di strumenti basati sull’intelligenza artificiale, come ChatGPT e altre soluzioni di produttività intelligente. Solo il 21% dei lavoratori italiani dichiara di utilizzare queste tecnologie in modo strutturato, collocando il Paese nel gruppo di nazioni meno avanzate in questo ambito, accanto a molte realtà del Medio Oriente. In contrasto, i Paesi a basso reddito, come India e Pakistan, guidano la classifica mondiale per utilizzo regolare, dimostrando come l’adozione tecnologica non sia necessariamente correlata al reddito. Il dato più sorprendente, tuttavia, è che il 40% dei lavoratori italiani non ha mai sperimentato alcuna forma di AI sul lavoro. Nonostante ciò, la voglia di aggiornarsi è evidente: il 63% degli intervistati italiani si dice disposto a intraprendere percorsi di re-skilling per apprendere nuove competenze e mantenersi competitivo, una percentuale superiore alla media globale del 57%.
Il ruolo degli HR manager
Il ruolo degli HR manager diventa quindi cruciale: devono assumere una posizione proattiva, promuovendo non solo l’uso delle tecnologie innovative, ma anche competenze trasversali come il problem solving e la capacità di integrare l’AI nei processi lavorativi. È essenziale offrire una visione chiara dell’evoluzione dei ruoli professionali, mostrando esempi concreti di come l’intelligenza artificiale possa automatizzare attività ripetitive e migliorare quelle più strategiche. In questo contesto, l’Italia ha l’opportunità di colmare il divario, abbracciando una trasformazione tecnologica che non sia solo tecnica ma anche culturale. La sfida è garantire che la tecnologia non sia vista come una minaccia, ma come un alleato per migliorare la produttività e il valore umano sul lavoro.
La sfida della riqualificazione per i meno giovani
L’intelligenza artificiale ridisegna il lavoro, ma non tutti i lavoratori sono pronti ad affrontarne le implicazioni. I meno istruiti dimostrano spesso maggiore adattabilità rispetto ai colleghi più qualificati, mentre i lavoratori più anziani, in generale, appaiono meno disposti a intraprendere percorsi di riqualificazione. Le aziende sono dunque chiamate a valutare come l’AI influenzerà il fabbisogno di competenze e a confrontare queste previsioni con la reale disponibilità di talenti, tenendo conto di fattori come pensionamenti e turnover.
In questo scenario, l’adozione di tecnologie avanzate richiede una visione strategica di lungo termine. Le organizzazioni devono investire non solo nella tecnologia, ma anche nella formazione continua, creando un circolo virtuoso tra talenti e innovazione. La formazione sull’AI generativa non si limita a preparare i lavoratori ad affrontare la trasformazione tecnologica, ma rende le aziende più attrattive, migliorando efficienza e competitività. Riducendo il peso delle attività ripetitive, l’AI libera risorse per concentrarsi su mansioni strategiche e ad alto valore aggiunto.

I rischi dell’AI: perché l’uomo deve rimanere al centro della tecnologia
L’intelligenza artificiale sta rimodellando il nostro modo di vivere e lavorare, ma il suo avanzamento non è privo di insidie. Mentre automatizza compiti e semplifica processi, rischia di erodere la capacità umana di pensare in modo critico e creativo, fornendo risposte rapide ma raramente stimolando il ragionamento. Le sue soluzioni, per quanto efficienti, tendono a confermare modelli esistenti piuttosto che sfidarli, riproducendo schemi noti e limitando la possibilità di immaginare futuri alternativi.
Questo paradosso rende evidente la necessità di progettare sistemi capaci non solo di rispondere, ma di interrogare. L’AI deve evolversi in uno strumento che non si limiti ad assecondare il pensiero umano, ma che lo arricchisca, mettendo in discussione previsioni errate e aiutando a migliorare i processi decisionali.
Interazione tra scienze e humanities
Un ruolo cruciale in questo scenario è ricoperto dalle scienze umane. Spesso relegate ai margini nell’epoca della tecnologia, le humanities si rivelano indispensabili per integrare le competenze STEM, superandone i limiti e garantendo che l’AI non riduca ma potenzi la capacità dell’uomo di immaginare e innovare.
Nell’era di machine learning e automazione, questo connubio tra tecnologia e pensiero umanistico diventa un valore imprescindibile. Le humanities, spesso considerate distanti dai contesti digitali, stanno emergendo come pilastri per sviluppare le soft skills più richieste dal mercato del lavoro globale. Secondo un rapporto del World Economic Forum, entro il 2025 le competenze chiave includeranno pensiero analitico, risoluzione di problemi complessi, innovazione e creatività, tutte radicate in discipline umanistiche e sociali. Questi strumenti del pensiero critico non solo consentono di affrontare le sfide tecnologiche, ma anche di trasformarle in opportunità per un progresso più inclusivo.
La crescente domanda di esperti in etica e filosofia ne è una testimonianza. Giganti tecnologici come Google, Microsoft e IBM stanno assumendo laureati in filosofia e scienze umane nei dipartimenti di etica e intelligenza artificiale, consapevoli che il futuro tecnologico richiede una guida umanistica per evitare di perpetuare i bias algoritmici e le disuguaglianze del passato. È attraverso questa lente critica che si possono progettare sistemi più equi, capaci di riflettere la complessità del reale senza appiattirlo su schemi predefiniti.
Le competenze più richieste nel mercato globale
Affrontare questa trasformazione richiede un dialogo profondo tra scienze esatte e umanistiche, dove la formazione diventa la base su cui costruire un equilibrio tra innovazione e valori. Secondo il World Economic Forum, entro il 2025, le competenze più richieste nel mercato globale includeranno pensiero analitico, innovazione, risoluzione di problemi complessi e creatività. Questi elementi, spesso associati al mondo umanistico, sono indispensabili per affrontare le sfide poste dalla tecnologia e per guidarne l’evoluzione in modo etico e sostenibile.
Numerosi esempi dimostrano come questa sinergia sia già in atto. OpenAI, durante lo sviluppo di GPT-3, ha coinvolto storici della letteratura e creativi per affinare le capacità del sistema nel generare contenuti di qualità, dimostrando che il successo tecnologico dipende da competenze umane. Un altro caso emblematico è rappresentato dalle collaborazioni tra esperti di intelligenza artificiale e storici, che stanno rivoluzionando l’analisi di grandi archivi documentali. Attraverso l’uso di algoritmi avanzati, è stato possibile identificare connessioni e pattern che altrimenti sarebbero rimasti nascosti, contribuendo a una comprensione più profonda del nostro passato.
L’importanza di questa integrazione è sostenuta anche da un rapporto di Deloitte Insights, che evidenzia come il 59% delle organizzazioni globali ritenga la combinazione di competenze tecniche e umanistiche un fattore chiave per il successo dell’intelligenza artificiale. Allo stesso tempo, l’UNESCO sottolinea che l’adozione di tecnologie avanzate senza una guida umanistica può amplificare i bias esistenti, minando l’equità e l’inclusività dei sistemi intelligenti.