Tra Rainbow Washing e disimpegno: ecco chi fa marcia indietro su Diversity & Inclusion

Diverse grandi aziende stanno riducendo le loro iniziative di diversity & inclusion in risposta a pressioni politiche e timori finanziari, sollevando interrogativi sull'autenticità del loro impegno sociale precedente. Le politiche di diversità, equità e inclusione stanno affrontando una sfida senza precedenti, in particolare negli Stati Uniti, dove il clima politico ha portato a un retrocedere da parte di marchi storici come Harley Davidson e Ford. In Europa, sebbene vi siano alcune resistenze, l’impegno verso l’inclusione sembra ancora saldo, con dati che mostrano un miglioramento nella partecipazione delle donne e delle minoranze etniche nei ruoli decisionali. La domanda rimane se il futuro sarà dominato dal pragmatismo economico o da un autentico impegno sociale. Scopriamo insieme che cosa sta succedendo.

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04 Ottobre, 2024

Il ritiro dalle iniziative di Diversity & Inclusion: un dietrofront strategico o una manovra politica?

Negli ultimi mesi, importanti aziende come Ford, Harley-Davidson, e Molson Coors hanno annunciato un ridimensionamento, se non un abbandono, delle loro politiche di diversity & inclusion. Questo trend, che coinvolge anche altri giganti come John Deere e Tractor Supply, solleva domande inquietanti: siamo di fronte a una ridefinizione delle priorità aziendali o a una reazione politica sotto pressione?

Secondo un recente report di The Advocate, molte di queste aziende hanno deciso di limitare le proprie politiche D&I in risposta a una crescente pressione politica proveniente da movimenti conservatori. La retorica dell’anti-woke sta guadagnando terreno, con leader come Ron DeSantis che criticano le aziende per il loro apparente allineamento con cause considerate “progressiste”. Questa tendenza si è tradotta in una sorta di fuga dai valori di inclusione che, fino a poco tempo fa, erano considerati imprescindibili per attrarre talenti e soddisfare le aspettative dei consumatori più giovani. Ma perché queste aziende stanno facendo marcia indietro?

Il dibattito sulla sostenibilità delle politiche D&I

Secondo Bloomberg, l’aumento delle controversie legali legate alle politiche di diversità, combinato con una polarizzazione sempre più marcata nel dibattito pubblico, ha indotto molte aziende a scegliere la cautela. Alcuni leader aziendali hanno dichiarato che queste politiche rischiavano di “snaturare” l’identità dell’azienda e di compromettere l’equità nei processi di assunzione e promozione.

Ma si tratta di una ricalibrazione necessaria o di una pura operazione di rainbow washing, dove l’apparente sostegno alle cause sociali non corrisponde a un precedente, vero impegno?

Secondo un sondaggio di Accenture, il 45% dei consumatori ritiene che molte delle campagne D&I siano tuttora solo di facciata, senza un vero cambiamento all’interno delle aziende stesse. Eppure, i dati mostrano che le aziende che adottano politiche autentiche di inclusione ottengono migliori risultati finanziari. Uno studio di McKinsey ha rilevato infatti che le aziende più inclusive hanno una probabilità del 30% maggiore di superare le loro concorrenti in termini di performance economica.

Attivismo: Online vs Offline

Nell’era precedente all’avvento dei social media, la politica, specialmente quella studentesca e dei movimenti, era una fucina di idee che si alimentava non solo dell’urgenza di cambiare il mondo, ma anche di legami umani più profondi: amicizia, amore, e l’intimità che nasceva dalla condivisione di ideali comuni. Non era raro che questi spazi fossero impregnati di un’energia unica, dove l’impegno politico si mescolava alla vita privata, alla voglia di stare insieme e di discutere di visioni rivoluzionarie per il futuro. Questa dimensione “offline”, permetteva di vivere l’attivismo in maniera più profonda e visceralmente collegata al quotidiano. Poi, con l’arrivo dei Social, tutto sembra essere cambiato. Scopriamo come.

Slacktivism: quando l’impegno si limita a un click

Secondo un’indagine del Pew Research Center del 2021, circa il 53% degli adulti americani ha partecipato a qualche forma di attivismo online, dimostrando come la rete sia diventata un canale primario per la mobilitazione politica. Tuttavia, questo attivismo digitale presenta dei limiti evidenti. Spesso, le campagne online si concentrano più sull’apparenza che sull’essenza, dando origine al fenomeno dello slacktivism, dove l’impegno si riduce a un semplice click, senza che vi sia un reale coinvolgimento nelle cause sostenute. Questo tipo di attivismo rischia di perdere la sua efficacia, trasformandosi in una forma passiva di partecipazione.

La mancanza di un coinvolgimento attivo sul campo

Anche in Europa, l’attivismo online ha preso piede in modo significativo, specialmente durante momenti cruciali come la pandemia di Covid-19 o le proteste per il cambiamento climatico. Il movimento Fridays for Future è un esempio lampante, diffondendosi rapidamente su piattaforme come Instagram e TikTok, coinvolgendo milioni di giovani. Un sondaggio del 2020 di Statista ha rivelato che il 65% dei giovani europei ritiene che i social media abbiano un impatto significativo nel sensibilizzare le persone su questioni globali come il cambiamento climatico. Tuttavia, nonostante la visibilità acquisita attraverso queste piattaforme, molti dei partecipanti mancano di un coinvolgimento attivo sul campo.

Il problema di fondo risiede nella natura stessa delle piattaforme digitali, che facilitano una partecipazione rapida e spesso superficiale, ma difficilmente innescano un impegno concreto e continuativo. I social media permettono di esprimere solidarietà o indignazione in maniera immediata, ma raramente portano a un cambiamento reale o a un’azione concreta. Come indicato da Pew Research, questo tipo di partecipazione può creare un’illusione di attivismo che, in realtà, non sfocia in un reale impatto sociale.

Un esercizio di vulnerabilità

In un mondo sempre più frammentato e polarizzato, l’impegno politico richiede una dose di coraggio che pochi sono disposti ad assumersi. L’attivismo, soprattutto quando coinvolge questioni identitarie, è un esercizio costante di vulnerabilità. Bisogna esporre non solo i nostri tratti migliori, ma anche quelli peggiori: la paura, l’ansia, la frustrazione che affliggono ogni individuo quando si espone a giudizi altrui. Oggi, più che mai, l’azione politica richiede di superare la barriera del giudizio esterno e di accettare una particolare forma di nevrosi: quella derivante dal dover conciliare le proprie convinzioni intime con l’impatto reale che si può sperare di avere sulla società.

Il 72% dei giovani è preoccupato per il giudizio che riceve sui social media

I dati parlano chiaro: una ricerca della Harvard University ha rilevato che il 72% dei giovani attivisti ammette di essere preoccupato per il giudizio che riceve sui social media quando espone le proprie opinioni politiche. Non si tratta solo di paura dell’ostracismo, ma di una nevrosi legata all’autenticità: come faccio a rappresentare me stesso senza venire schiacciato dalle aspettative altrui?

Questa tensione è accentuata dalla cultura digitale contemporanea, che rende ogni azione immediatamente visibile e, di conseguenza, giudicabile. In Europa, un sondaggio di Statista del 2021 ha mostrato che il 65% degli europei di età compresa tra i 18 e i 35 anni considera i social media un’arma a doppio taglio: da un lato, offrono un palcoscenico per le loro voci, dall’altro alimentano una crescente pressione sociale che li spinge a conformarsi alle opinioni dominanti, pena l’esclusione sociale.

Diversità, equità e inclusione nel concreto

Le politiche di diversità, equità e inclusione (DEI) rappresentano un insieme complesso di pratiche che mirano a creare spazi più inclusivi per persone di ogni estrazione sociale, etnia, genere e identità sessuale. Nell’ambito aziendale, queste politiche sono state introdotte per dare a tutte e tutti le stesse opportunità di carriera, cercando di rimuovere barriere che tradizionalmente ostacolano donne, persone con disabilità, minoranze etniche e comunità LGBTQIA+. Alcuni dei sistemi implementati includono l’estensione dei diritti di maternità e paternità condivisa, il rafforzamento delle quote rosa e la promozione di un linguaggio inclusivo. Queste iniziative, tuttavia, non sono monolitiche e variano notevolmente a seconda del contesto geografico e aziendale

Gender Equality Strategy 2020-2025

In Europa, la Commissione Europea ha spinto per l’adozione di politiche più inclusive nel settore privato e pubblico, promuovendo la Gender Equality Strategy 2020-2025, che mira a ridurre il divario di genere e ad aumentare la partecipazione delle donne al mercato del lavoro. Secondo dati Eurostat, nel 2021, solo il 33% delle posizioni di leadership nell’UE erano occupate da donne, evidenziando la necessità di un cambiamento profondo. Parallelamente, in Italia, il Global Gender Gap Report 2022 ha rilevato che il paese si classifica solo 63esimo su 146 per la parità di genere, sottolineando la necessità di politiche più efficaci.

Il vero obiettivo delle politiche DEI è creare un ambiente lavorativo dove il talento prevalga su qualsiasi altra considerazione, garantendo pari opportunità a chiunque, indipendentemente dal punto di partenza. In questo senso, il successo delle aziende che implementano politiche DEI autentiche si riflette non solo in termini di equità, ma anche di miglioramenti economici. Secondo uno studio di McKinsey, le aziende con alti livelli di diversità hanno infatti il 35% di probabilità in più di avere una performance finanziaria superiore alla media del settore.

Gli Stati Uniti nellasvolta anti-DEI”

Storicamente, gli Stati Uniti hanno guidato l’adozione delle politiche di diversity, equality e inclusion (DEI), con il celebre Corporate Equality Index (CEI) sviluppato dalla Human Rights Campaign. Questo strumento, creato per certificare le aziende più inclusive verso la comunità LGBTQIA+, è stato un faro di progresso sociale e un motore di innovazione nelle politiche aziendali. Il CEI ha premiato quelle aziende che hanno abbracciato valori di equità e inclusione, tra cui colossi come Apple, Google, e Microsoft, tutte valutate con il punteggio massimo per l’inclusività, secondo il rapporto del 2023 della Human Rights Campaign. Tuttavia, la crescente polarizzazione politica degli Stati Uniti ha creato un clima di ostilità verso queste politiche, con l’associazione Human Rights Campaign sempre più associata a posizioni progressiste, soprattutto dopo il sostegno a figure politiche come Kamala Harris. Questa inclinazione ha messo la HRC nel mirino delle frange più estremiste del Partito Repubblicano, con il Corporate Equality Index che è divenuto una delle principali vittime di una svolta anti-DEI.

Harley Davidson e Ford: la ritirata delle politiche DEI

Tra i casi più emblematici, la decisione di Harley Davidson di abbandonare apertamente le sue politiche di inclusione. In un comunicato via Twitter del 19 agosto 2024, l’azienda ha dichiarato che dal mese di aprile non segue più un programma DEI strutturato e non partecipa più al CEI della Human Rights Campaign. Questa decisione è stata interpretata come una risposta diretta agli attacchi provenienti da gruppi repubblicani, contrari a ciò che considerano discriminazioni nei confronti dei dipendenti non inclusi nelle politiche DEI .

Allo stesso modo, Ford ha iniziato a ritirare i propri investimenti in iniziative pubbliche non direttamente collegate al suo core business. In particolare, la casa automobilistica ha smesso di partecipare a manifestazioni come il Pride, segnalando una ritirata dalla visibilità pubblica delle sue politiche DEI in risposta a pressioni politiche e sociali.

Il caso Ford e l’ombra sull’inclusione aziendale

Tra i giganti del settore che stanno facendo marcia indietro sulle politiche di Diversity & Inclusion, Ford spicca come uno dei casi più emblematici. Sebbene non ci sia stata una dichiarazione ufficiale pubblica, una nota interna diffusa dal CEO Jim Farley ha rivelato l’intenzione di concentrare gli sforzi aziendali su ciò che conta davvero per l’azienda: clienti, dipendenti e comunità, evitando di esprimersi sui temi polarizzanti del dibattito pubblico. La lettera di Farley, trapelata ai media, ha anche specificato che Ford non assegna premi o promozioni basati su quote di diversity, segnalando l’uscita dell’azienda dal Corporate Equality Index della Human Rights Campaign, dove Ford aveva a lungo mantenuto un punteggio perfetto.

Anche Lowe’s, Tractor Supply, John Deere, Jack Daniel’s e Coors si ritirano dall’arena pubblica delle cause sociali

Questa mossa rappresenta una rottura con il passato, considerando che Ford era tra le 600 aziende statunitensi con il massimo dei voti nel CEI, un segnale tangibile dell’impegno passato per l’inclusione. Tuttavia, il cambiamento di rotta non riguarda solo Ford. Marchi come Lowe’s, Tractor Supply, John Deere, Jack Daniel’s e Coors hanno tutti seguito un percorso simile, abbandonando non solo il CEI ma anche altre classifiche che celebravano i luoghi di lavoro inclusivi, preferendo ritirarsi dall’arena pubblica delle cause sociali.

Un trend che attraversa l’Atlantico?

In Europa, invece, la situazione è diversa. Mentre negli Stati Uniti la polarizzazione politica sta spingendo le aziende a ritirarsi da queste iniziative, nell’Unione Europea le politiche di DEI restano al centro delle strategie aziendali. Secondo la Commissione Europea, nel 2020 il 48% delle grandi aziende europee ha implementato politiche attive per promuovere la diversità nei luoghi di lavoro, un dato in crescita rispetto al 36% del 2015. Tuttavia, anche l’Europa non è immune a critiche e resistenze. Un report del Diversity Brand Index 2021 ha mostrato che solo il 40% dei dipendenti europei ritiene che le iniziative di inclusione siano realmente efficaci nel cambiare la cultura aziendale, suggerendo che molto resta ancora da fare per trasformare la DEI in un vero motore di cambiamento.

L’Italia al 63° posto

In Italia, il Global Gender Gap Report 2022 rivela che, nonostante alcune conquiste, il divario di genere rimane significativo, con il paese al 63° posto su 146 nazioni. Questo sottolinea come le politiche di inclusione e uguaglianza di genere, sebbene in crescita, siano ancora limitate nei loro effetti pratici.

L’effetto boomerang del ritiro delle politiche inclusive

Il ritiro delle politiche di diversità, equità e inclusione (DEI) da parte di alcuni brand potrebbe avere conseguenze inaspettate. Secondo la Human Rights Campaign, oltre l’80% degli adulti LGBTQIA+ boicotterebbe un’azienda che riduce tali politiche, e più della metà inciterebbe altri a fare lo stesso. Questi numeri rivelano una potenziale perdita di fiducia da parte di una fetta di consumatori, in particolare tra Millennial e Gen Z, generazioni particolarmente sensibili ai valori di inclusione e giustizia sociale. Tuttavia, il rischio calcolato da marchi come Harley Davidson, Ford e Coors, che hanno un pubblico prevalentemente maschile, bianco e cisgender, riflette una scelta strategica in risposta alla crescente polarizzazione sociale negli Stati Uniti